Internet ed i social media sono la rivoluzione collettiva più importante, ci hanno regalato immediatezza e fatto svestire i panni di semplici ascoltatori passivi, contribuenti di migliorie e in parte neppure malefiche.

Il vero grattacapo è rappresentato dal suo utilizzatore.

Questi sono tempi duri.

Bombardati dal Covid, numeri, informazioni, audio che registrano i suoni delle terapie intensive e liste di morti, più o meno conosciuti.

Giornali e telegiornali sbattono in prima pagina la rotta mediterranea dei migranti aprendo dibattiti su salvataggi e organizzazioni umanitarie.

Immagini drammatiche e crude che palesano una realtà con cui altrimenti difficilmente ci troveremo a scontrarci.

Una condivisione che si ferma allo schermo dello smartphone alimentata da una pioggia di like tenuta in vita da qualche commento e cuoricino.

Quanto è labile e incerto il confine con la pornografia del dolore?

Chi non condivide è un apolide digitale?

Le immagini hanno una forza che noi dobbiamo essere in grado di governare; la fotografia spesso riesce direttamente ad ottenere ciò che si dovrebbe scongiurare: la normalizzazione delle atrocità.

La spettacolarizzazione del dolore ci ha assuefatti, generando un appiattimento dell’ informazione; la fotografia diventa fine a se stessa e non veicola altro messaggio all’ infuori di sè.

Senza lo status di vittima , senza la possibilità di comprendere l’altro, la persona ritratta perde il nostro interesse; è un soggetto privo di caratteristiche che possono sollecitare in noi qualche emozione.

Saremo in grado di emozionarci di fronte all’ immagine di un bambino siriano che fugge dalla guerra ma non andremo ad approfondire le cause e le complessità di quel conflitto.

Ci accontenteremo dell’ immediatezza privandoci di un racconto.

Significa, paradossalmente, che quell’ immagine ha perso di significato; forte l’ impatto sul momento, nulla la traccia che lascia.

Ed ogni giorno si ricomincia da capo.

E’ davvero così necessario mostrare dolore per comprendere la gravità e la deriva che stiamo vivendo?

I tempi sono quelli di un like o una faccina triste.

Lo ” sforzo” sarebbe puntare alla consapevolezza dopo l’ emozione perchè questa è il gradino più basso della cittadanza.